Trump chiede a Bukele di costruire più prigioni per espellere altri criminali

Nayib Bukele, presidente del minuscolo El Salvador, è stato ieri il primo capo di stato latinoamericano a mettere piede alla Casa bianca nel secondo mandato di Donald Trump.

«Sta facendo un lavoro fantastico» aveva dichiarato la scorsa settimana sull’Air Force One il tycoon dopo la terza deportazione (da marzo) per un totale di quasi trecento presunti membri delle bande giovanili M13 e Tren de Aragua nel nuovo mega Centro di Confinamento per Terroristi (Cecot) di Tecoluca.

«Ho appena chiesto al presidente Bukele – ha detto Trump nello Studio Ovale – sapete, quel gigantesco complesso carcerario che ha costruito. Gli ho detto: “Puoi costruirne altri, per favore?”. Ci manderemo tutti quelli che possiamo espellere, che abbiamo lasciato entrare nel nostro Paese a causa dell’incompetente Joe Biden e delle frontiere aperte».

La gran parte dei deportati fin qui sono venezuelani e poco meno della metà risulta avessero fatto regolare richiesta di residenza e/o asilo negli Stati Uniti. Per inviarli ammanettati in El Salvador Trump è ricorso a un’antica legge Usa contro i «nemici stranieri» che potevano essere espulsi senza colpo ferire.

È solo di fine mese scorso l’ostentato video di una soddisfatta giovane Segretaria alla sicurezza, Kristi Norem, con alle spalle decine di pressoché ignudi giovani dietro le sbarre nella prigione di massima sicurezza salvadoregna. Con Bukele che le aveva già confermato la disponibilità di ricevere altri «criminali» di qualsiasi nazionalità, cittadini statunitensi compresi. Certo in cambio di un affitto che è stato fissato per il primo anno in 6 milioni di dollari.

La novità che potrebbe scaturire dall’incontro Bukele-Trump di ieri è l’ampliamento del Cecot che passerebbe dai 40mila posti attuali finanche a centomila. Ma soprattutto una sua parte potrebbe clamorosamente passare sotto la “giurisdizione” diretta di Washington come che fosse un’altra Guantanamo.

A margine del faccia-a-faccia con Trump, Bukele è stato tranchant sul caso del 29enne salvadoregno Kilmar Abrego Garcia, per il quale lo stesso governo statunitense ha ammesso di averlo erroneamente deportato nel Cecot nonostante avesse un regolare permesso di soggiorno nel Maryland.

Un tribunale statunitemnse chiede di riportarlo indietro, ma per il presidente centroamericano non se ne parla: «Non ho il potere di rimandarlo negli Stati Uniti – ha detto Bukele – Come potrei? Dovrei farlo entrare di nascosto?». Eppure Stephen Miller, vicecapo di gabinetto della Casa Bianca, sempre ieri ha sostenuto che la decisione spetta a El Salvador.

Sono stati ben 22 i voli (dal 20 gennaio scorso) carichi di salvadoregni rispediti nel loro paese in quanto immigrati irregolari. Del resto il millennial Bukele già durante il primo mandato Trump aveva contenuto drasticamente l’esodo dal suo paese. Non importa che le rimesse familiari (equivalenti ad almeno un terzo del Pil) possano ridursi, ma di intascare il sostegno diretto di Washington. O indiretto, come la solenne dichiarazione del Dipartimento di stato secondo cui El Salvador è il paese più sicuro dell’America Latina per un cittadino statunitense che ci voglia andare in vacanza o a vivere e investire. Magari nel tanto controverso settore delle miniere d’oro; recentemente contestato dagli stessi vescovi locali.

In questo contesto potrebbe risultare irrilevante che all’ordine del giorno della riunione di ieri ci fosse essere anche il 10% di dazi che gli Usa hanno fissato per El Salvador come per gran parte del resto del subcontinente.

Fonti: Articolo de Il Manifesto del 15/04/25. Foto ABC7