Mai aveva osato tanto l’appena riconfermato presidente di El Salvador, Nayib Bukele, postando un tweet dove assicura di “poter risolvere” la gravissima crisi in corso nella vicina Haiti, sconquassata dalle gang giovanili [vedi nota]. Sempre e quando, ha precisato, venga disposta una relativa “risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, condivisa dal governo haitiano”. Oltre che la “copertura delle conseguenti spese della missione”.
Uno spregiudicato azzardo, da esagerata considerazione di sé, che giunge solo due settimane dopo la partecipazione nel Maryland a una convention di conservatori trumpisti (che ha peraltro sconfessato il suo essere “né di destra né di sinistra”) dove Bukele si è avventurato a suggerire agli Stati Uniti: “fate come me” se volete salvarvi dal diffondersi della violenza e della criminalità.
Per esempio decretando lo “stato di eccezione”, ininterrottamente vigente dal 2022 in El Salvador e rinnovato proprio l’altro giorno, con la relativa sospensione delle garanzie costituzionali.
Il 42enne presidente Nayib ha costruito del resto la sua popolarità proprio da allora incarcerando oltre 78mila giovani delle pandillas che controllavano a suon di estorsioni le disperate periferie delle città. Certo, col risultato di far precipitare il tasso di omicidi per centomila abitanti. Ma convertendo al contempo El Salvador nel paese al mondo con la più alta percentuale di popolazione (l’1,4%) in galera; facendone costruire il penitenziario più grande (40mila detenuti).
Viene da chiedersi quanti di quei reclusi (dodicenni compresi) siano in realtà effettivamente colpevoli quando sottoposti a indagini e processi sommari e di gruppo. Con le varie entità internazionali (Amnesty in testa) a denunciare la sistematica violazione dei più elementari diritti umani. Di cui sono rimasti vittima anche la società civile organizzata e i giornalisti della libera stampa, costretti via via ad abbandonare il paese. Come la giovane redazione di El Faro, primo periodico digitale dell’America Latina; e il suo direttore Carlos Dada.
In questo modo il “dittatore più cool”, come si autodefinisce Bukele, è assurto col suo esclusivo clan (pure familiare) a modello per altri neopresidenti ultrapopulisti del subcontinente quali l’argentino Javier Milei o l’ecuadoriano Daniel Noboa.
È in questo clima di militarizzazione di fatto del paese che si è tenuta in El Salvador la maratona elettorale iniziata con le presidenziali e parlamentari del 4 febbraio scorso e conclusasi il 3 marzo ultimo con il rinnovo di sindaci, consigli municipali e deputati al Parlamento Centroamericano. Consultazioni dall’esito scontatamente in favore del partito Nuevas Ideas, oltre che del suo fondatore Bukele. Che per farsi rieleggere alla massima carica dello stato ha violato la carta magna che ne proibiva tassativamente la ricandidatura. Salvo autosospendersi e farsi sostituire fittiziamente negli ultimi sei mesi di mandato.
Paradosso vuole che quella che per Bukele avrebbe dovuto essere una trionfale e plebiscitaria riaffermazione si è convertita in un incredibile flop.
La sera di domenica 4 febbraio infatti, dopo appena due d’ore dalla chiusura dei seggi e con tanto di consorte al suo fianco, si era già solennemente affacciato dal balcone del Palacio Nacional autoproclamandosi vincitore con l’85% delle preferenze e facendo appena in tempo ad annunciare pure che il suo partito avrebbe ottenuto 58 deputati su 60. Quando il sistema informatico di conteggio è andato in tilt senza mai più rifunzionare.
C’è voluta un’intera settimana perché arrivassero i risultati che lo sancivano di nuovo alla guida del paese con un 82%. Ma a quel punto “presunto”, visto che nel frattempo ai seggi e nella sede centrale dello scrutinio (invasi da militanti della sua organizzazione) si erano consumate infinite irregolarità: furti di urne, manomissione di schede e plateali inosservanze delle procedure. Con gli osservatori dell’Organizzazione degli Stati Americani a segnalare la “mancanza di controlli da parte del Tribunale Supremo Elettorale (TSE)”, scavalcato dall’“atteggiamento dominante e intimidatorio dei rappresentanti di Nuevas Ideas”. E raccomandandosi di “correggere gli innumerevoli malfunzionamenti logistici”.
Solo alla vigilia dell’appuntamento delle amministrative, in extremis e a rischio che dovessero essere posticipate, è arrivato anche il verdetto delle parlamentari. Secondo il quale Nuevas Ideas avrebbe accresciuto il controllo dai due terzi ai tre quarti degli scranni (54 su 60) assicurando a Bukele la (in ogni caso) arbitraria subalternità del potere giudiziario sin qui goduta; potendo nominare, fra gli altri, Corte Suprema di Giustizia, Corte dei Conti e TSE.
Ma chi può garantire che quella super maggioranza sia stata reale? Pur senza voler mettere in discussione il successo di Bukele e del suo partito, che hanno ridotto ai minimi termini l’antico bipartitismo, con due seggi alla destra di ARENA e lo “zero” all’ex guerriglia del Frente Farabundo Martì (tra le cui fila era stato peraltro eletto sindaco della capitale nel 2015 per poi esserne espulso).
E soprattutto, quanti salvadoregni sono andati effettivamente a votare? Il 52%, come sostiene l’entourage governativo? O, a fatica, il 40% come indicano più affidabili fonti indipendenti? O si sarebbe registrato addirittura un 71% di astensionismo (comprendendo schede bianche e nulle) come assicurano gli oppositori più critici (che ne chiedono l’annullamento)? Non si saprà mai. Salvo comprendere, a posteriori, perché un preoccupato Bukele, ben prima che chiudessero i seggi e violando il silenzio elettorale, fosse apparso in tv alla nazione esortando la popolazione a recarsi alle urne.
Insomma un gran caos del sistema elettorale, montato paradossalmente dal primo presidente millennial latinoamericano, iper twittero / informatico / digitale; ridotto a contare i voti manualmente, uno per uno. Mettendo in seria discussione la credibilità e il marcato consenso che gli davano i sondaggi della vigilia.
Spentisi i riflettori internazionali su presidenziali e legislative, l’ultimo oltre che relativamente meno importante (e seguito) appuntamento del tour de force elettorale [per i 44 sindaci e consigli comunali del Paese, e per i 20 deputati di El Salvador al Parlamento Centroamericano, ndr] si è svolto celermente e fornendo risultati più verosimili. Innanzitutto per aver registrato un’affluenza ben al di sotto del 30%. E poi perché Nuevas Ideas ha ottenuto 13 su 20 seggi nell’assise centroamericana (invece dei 54 su 60 al parlamento nazionale). Così come ha conquistato il controllo diretto di “soli” 26 dei 44 comuni in palio. Anche qui tenendo conto che Bukele aveva drasticamente sforbiciato d’autorità il numero dei municipi che erano sempre stati 262, ridisegnando ad hoc i nuovi 44 collegi elettorali in funzione della propria formazione politica.
Ciò nonostante Bukele ha voluto ostentare forzatamente con orgoglio “il record della prima democrazia al mondo a partito unico”. Anche se il suo riconfermato vice, Felix Ulloa, in una precedente intervista al New York Times aveva parlato di “eliminazione della democrazia in El Salvador”. Che è poi la stessa cosa.
Oltre a enfatizzare suoi tratti reazionari un tempo pressoché sconosciuti. Come la strenua difesa della legge che proibisce qualsiasi tipo di aborto in El Salvador (con decine di giovani donne a scontare in carcere fino a trent’anni) e rilanciando ringalluzzito la messa al bando di ogni “ideologia di genere” nelle scuole.
Di fatto però lo sfoggio propagandistico di Bukele ha finito col tramutarsi nella sua nemesi, come ha sottolineato il padre Rodolfo Cardenal, direttore del Centro Oscar Romero dell’Università Centroamericana dei gesuiti di San Salvador, anch’essa sotto il mirino dell’aspirante autocrate. Che “senza averne bisogno ha messo a repentaglio la propria popolarità con approssimazione, dilettantismo e delirio di potere; eccedendo nell’uso della manita (manina) come ai tempi dei passati regimi militari”. Proprio lui che da “negazionista” ha definito gli storici accordi di pace fra esercito e guerriglia del 1992 (dopo dodici anni di sanguinosa guerra civile) “l’evento più ipocrita della nostra storia, per la glorificazione di un patto fra gli assassini del nostro popolo che poi si sono spartiti la torta”.
Così che dal primo giugno prossimo (data di reinsediamento per un secondo quinquennio) al campione dell’antipolitica Bukele, cui deve essere riconosciuto di aver risollevato i salvadoregni in quanto a sicurezza (ma al prezzo di un azzeramento dello stato di diritto) non resta che una sola alternativa per recuperare in affidabilità. Abolire innanzitutto la normalità dello “stato di eccezione”. Per poi darsi da fare per migliorare le miserie condizioni di vita dei salvadoregni, perennemente condannati a campare alla giornata in un paese dove l’economia informale supera il 60%.
E non certo ripartendo pacchi di alimenti (regalati dai cinesi) come ha fatto durante la recente campagna elettorale. O sottraendo a prestito dal fondo pensioni nazionale denari per l’erario pubblico. E men che meno ricorrendo a scorciatoie come l’aver dato corso dal 2021 (prima nazione al mondo) al bitcoin, invertendovi impropriamente 105 milioni di risorse pubbliche in un mercato esclusivamente speculativo (pur attualmente in rialzo). E soprattutto illudendosi che le rimesse familiari degli emigrati (che ammontano al 26% del pil) sarebbero entrate nel fraudolento circuito della criptomoneta. Con tanto di curioso gemellaggio con la piazza finanziaria svizzera di Lugano.
Bensì introducendo finalmente qualche imposta diretta sui settori oligarchici che di tasse (a quelle latitudini) non ne hanno quasi mai pagate. E varando salari minimi dignitosi. Per ridurre disuguaglianze sociali pazzesche sulle quali, nel suo primo mandato, non ha fatto pressoché nulla.
Altra raccomandazione gli è venuta dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani con sede a Ginevra: “ripristinare la separazione dei poteri dello stato”.
Anche se, per ora, dopo aver criticato nel passato le pluri-postulazioni dei vicini Daniel Ortega in Nicaragua e dell’ex narcopresidente dell’Honduras Juan Orlando Hernández, Bukele si è solo limitato a promettere che non si ricandiderà per una terza volta. Gli basterà, assicura, “aver incamminato El Salvador in questo percorso di cambiamento irreversibile”.
Nota: Port au Prince e il resto del paese sono in balia di decine di gang armate che la scorsa settimana hanno fatto irruzione nel più grande carcere della capitale, liberando 4.500 detenuti. Con il primo ministro Ariel Henry che ha appena dato le dimissioni ed è riparato all’estero. Mentre le Nazioni Unite avrebbero disposto dall’ottobre scorso una missione multinazionale di sicurezza (capeggiata da militari del Kenya) che non è stata ancora dispiegata. Nel 2021 lo stesso presidente Jovenel Moise era rimasto vittima di un attentato.
Fonti: Articolo de il manifesto del 15/03/24. Foto de Il foglio.