Il bello delle libere elezioni è proprio questo: che si può, democraticamente, legittimamente, tentare di ribaltare il tavolo. E gli elettori del Guatemala hanno deciso di far prendere una strada completamente nuova al paese dell’America centrale dopo 12 anni di governi di destra, affidando al socialdemocratico Bernardo Arévalo le chiavi del Palacio Verde, il palazzo presidenziale.
Il suo partito, Movimiento Semilla, non propone grandi alchimie politiche, ma fonda la sua azione su un incrollabile impegno: difesa dei diritti e lotta frontale alla corruzione (e alla criminalità organizzata) che da decenni, e per decenni, ha incancrenito le istituzioni guatemalteche fino a diventarne parte integrante. Nel ballottaggio di domenica scorsa, il 58% dei votanti ha deciso di dare fiducia proprio al candidato che in campagna elettorale aveva promesso di ripristinare lo stato di diritto, offrendo la speranza di una nuova “primavera democratica”.
«Questo voto rappresenta un rifiuto della corruzione, un rifiuto dei partiti tradizionali», ha dichiarato Gabriela Carrera, docente di scienze politiche all’Università Rafael Landivar di Città del Guatemala, intervistata dall’emittente Al Jazeera. Arévalo, 64 anni, ex diplomatico, sociologo, scrittore, figlio del primo presidente guatemalteco democraticamente eletto, Juan José Arévalo, che rimase in carica dal 1945 al 1951 (introducendo anche una delle prime forme di salario minimo), ha sconfitto nettamente la sua rivale Sandra Torres, candidata del partito Unità Nazionale per la Speranza (UNE, formalmente di centrosinistra, ma in realtà spostato su posizioni conservatrici decisamente contigue alla destra, a partire dalla difesa dei “valori tradizionali della famiglia), che aveva il sostegno dell’attuale establishment politico, di numerosi pastori della chiesa evangelica, assai diffusa e influente nel paese, e anche del presidente uscente Alejandro Giammattei (ma c’è chi sostiene che contasse anche sull’appoggio di gruppi legati alla criminalità organizzata).
Torres, ex first lady tra il 2008 e il 2011, quando presidente era il marito Álvaro Colom, era alla terza corsa presidenziale: tutte fallite. Nel 2011 aveva perfino divorziato dal marito per aggirare la norma della Costituzione che impediva ai parenti stretti del presidente in carica di candidarsi. Durante quest’ultima campagna elettorale i sostenitori di Sandra Torres hanno distribuito gadget, ma soprattutto cibo e perfino denaro ai potenziali elettori (la povertà nel paese è una piaga: circa due terzi dei 16 milioni di guatemaltechi vive con meno di due dollari al giorno). Ma lo stratagemma non sembra aver funzionato, almeno non abbastanza.
La Cia, le banane, la dittatura militare
La democrazia guatemalteca ha una storia tormentata, indelebilmente segnata dal colpo di stato del 1954, architettato in gran segreto dalla Cia, su ordine della Casa Bianca (nome in codice: operazione PBSuccess) che portò alla destituzione del presidente eletto Jacobo Arbenz, bollato come “comunista” dagli americani, e all’instaurazione di una dittatura militare guidata da Carlos Castillo Armas (e altri ne vennero dopo di lui, tutti sostenuti dagli Stati Uniti).
All’origine dell’intervento americano c’era sì l’intento di spazzar via il governo dei “comunisti” (quasi una “firma” degli Stati Uniti, un’ingerenza assai diffusa e di fatto tollerata in centro e sud America in quegli anni: dal Cile al Venezuela, dal Brasile all’Argentina, l’elenco è incredibilmente corposo), ma anche la difesa degli interessi di una multinazionale americana chiamata United Fruit Company (ora nota come Chiquita Brands International) pressoché monopolista della produzione e del commercio delle banane (viene proprio da Guatemala e Honduras la definizione, dispregiativa, “Repubblica delle banane” per descrivere «un paese politicamente instabile con un’economia che dipende interamente dalle entrate derivanti dall’esportazione di un singolo prodotto») che negli anni 40 del Novecento controllava, grazie anche a un diffuso sistema di tangenti, il 42% della terra del Guatemala, oltre i due terzi delle sue esportazioni e perfino i suoi sistemi telefonici e telegrafici.
Nel 1951 fu eletto presidente Jacobo Arbenz, un ex colonnello socialista e progressista che si era messo in testa di riprendere il controllo dell’economia nazionale. E che, con la riforma agraria del 1952, aveva deciso la redistribuzione di una parte dei terreni non sviluppati in mano alla multinazionale a centomila famiglie guatemalteche. Attenzione: non requisendo quei terreni, ma ricomprandoli dai proprietari al prezzo da loro stessi indicato nei documenti fiscali dell’epoca. La United Fruit Company tentò di resistere, poi andò a lamentarsi a Washington: e la Cia organizzò il colpo di stato.
Da lì alla guerra civile, scoppiata nel 1960 con i contadini e gli indigeni da una parte e il regime militare dall’altra, il passo fu breve: ben più lungo e complesso fu uscirne, almeno sulla carta, con gli accordi di pace firmati soltanto nel 1996. Durante i 36 anni di guerra civile, stando ai rapporti ufficiali, le vittime furono oltre 200mila, e più di un milione le persone sfollate, la maggior parte delle quali erano di origine Maya, che tentavano in ogni modo di frenare l’espansione violenta delle grandi multinazionali. Secondo una successiva commissione delle Nazioni Unite, le forze militari guatemalteche sono state responsabili del 93% delle uccisioni. Mentre ai guerriglieri insorti, che combattevano per rovesciare il regime, fu attribuito il 3% delle atrocità. L’ex presidente del Guatemala Efraín Ríos Montt, dittatore sanguinario e fanatico religioso, morto nel 2018, è stato riconosciuto colpevole di genocidio per i crimini commessi.
Gli accordi di pace del ’96, tuttavia, non hanno mai funzionato, lasciando al Guatemala una drammatica eredità di violenza in crescita costante. Nel dicembre 2021, in occasione del 25° anniversario della firma, l’antropologa americana Victoria Sanford riassumeva così la terribile situazione maturata dopo la guerra: «Sono morte più persone nei primi 25 anni di pace che durante i 36 anni della brutale guerra civile». Scriveva pochi mesi fa InsightCrime, il centro di ricerca specializzato nell’analisi del crimine organizzato in America Latina: «I blocchi di potere criminali-corrotti guatemaltechi di oggi hanno le loro origini nella guerra civile del paese. I militari governarono il paese durante la maggior parte della guerra. Queste reti militari si trasformarono in reti criminali, che erano legate dalle loro esperienze condivise di guerra. Il modello per queste reti era noto come La Cofradía, o la Fratellanza. La Cofradía risale al 1970, quando i suoi membri criminalizzarono l’agenzia doganale, tra gli altri enti governativi, dopo averla posta sotto il dominio militare con il pretesto di proteggersi dal contrabbando di armi nel paese».
L’intreccio perverso tra criminalità e politica
Dunque potere, corruzione e criminalità organizzata, in Guatemala, camminano da decenni a braccetto, fino a confondersi. Appena pochi anni fa, nel 2019, l’allora presidente Jimmy Morales decise di espellere dal paese la Commissione internazionale (Comisión Internacional contra la Impunidad en Guatemala), appoggiata dall’Onu, che stava indagando proprio nei suoi confronti con l’accusa di corruzione, dopo aver raccolto prove di irregolarità compiute da diversi esponenti della classe politica del tempo. E il suo successore, Alejandro Giammattei (che resterà ancora diversi mesi in carica), si è sempre rifiutato di riammetterla. Scriveva lo scorso gennaio Human Rights Watch, in vista delle ultime elezioni: «La democrazia guatemalteca sta attraversando una grave crisi. Le autorità hanno indebolito le garanzie dei diritti umani e il sistema di controlli ed equilibri istituzionali nel tentativo di prevenire la responsabilità per la corruzione diffusa ai più alti livelli di potere.
L’ufficio del procuratore generale ha anche presentato false accuse penali contro giornalisti, pubblici ministeri e giudici indipendenti che hanno indagato o rivelato corruzione, violazioni dei diritti umani e casi di abuso di potere». Sempre InsightCrime traccia un capillare profilo delle élite economiche tradizionali attualmente operative in Guatemala («famiglie che fanno uso di affari e capitali per evitare il controllo ed esercitare influenza politica per i loro interessi economici e l’indebolimento o la distruzione della concorrenza») e delle élite emergenti («soprattutto nel settore farmaceutico, delle costruzioni o delle telecomunicazioni»).
C’è però un altro livello, più nascosto, meno visibile: «In un ambiente più clandestino ci sono i corpi illegali e gli apparati di sicurezza clandestini (CIACS): questi apparati sono reti di generali dell’esercito e agenti dell’intelligence formati durante la guerra civile che sono penetrati in posizioni di alto livello per favorire l’impunità per i loro crimini di guerra e attività criminali, tra cui il traffico di droga e il contrabbando. Nel corso del tempo, hanno esteso i loro interessi economici alla sicurezza privata e ad altre industrie. I CIACS rimangono incorporati nello stato e usano il governo per promuovere i loro interessi.
Infine, ci sono le organizzazioni di narcotrafficanti che sfruttano il potere politico ed economico per esercitare influenza sul Congresso e sui sindaci. Ciò consente loro di ottenere contratti con il governo per riciclare proventi illeciti e godere di protezione giudiziaria». Interessante anche l’analisi tracciata alla vigilia delle elezioni dal sito di giornalismo investigativo sudamericano ContraCorriente: «Il Guatemala è già sfuggito di mano: candidati sindaci che sono apertamente trafficanti di droga, signori della guerra locali e analfabeti funzionali. Candidati a deputati che sono operatori politici di reti di corruzione, con indagini aperte, abusatori di donne, ruffiani e banditi».
Un futuro pieno d’incognite
Questa la cornice, drammatica e pericolosissima, nel quale il neopresidente Bernardo Arévalo dovrà tentare di muoversi, alla guida di un paese che continua a soffrire non soltanto di una violenza endemica e di una sistematica repressione dei diritti umani, ma anche di una insicurezza alimentare che rischia di finire fuori controllo.
Ma è evidente che portare a casa risultati concreti, vale a dire realizzare almeno in parte il suo programma elettorale, sarà un’impresa. Il suo partito, Semilla, può disporre appena di 23 deputati sui 160 che sono stati eletti al Congresso nazionale. In Parlamento la maggioranza è ancora saldamente in mano ai partiti che quasi sfacciatamente fanno parte di quel “sistema” di corruzione che Arévalo vorrebbe contrastare (da Vamos, del presidente uscente Alejandro Giammattei, a UNE, della sfidante sconfitta Sandra Torres).
Insomma, i mesi che dovranno trascorrere prima dell’insediamento di Arévalo (previsto il 14 gennaio 2024) saranno densi d’incognite. Basti pensare che subito dopo il voto del primo turno delle presidenziali, quando è stato chiaro che Arévalo, a sorpresa, aveva conquistato il ballottaggio, l’ufficio del procuratore generale aveva messo sotto indagine il partito Movimiento Semilla, accusandolo di presunte irregolarità, palesemente inventate.
La Corte Suprema aveva poi riammesso il partito. «Anche se Arévalo diventasse presidente ci potrebbero essere ulteriori tentativi di impedirgli di assumere l’incarico», aveva previsto alla vigilia del voto di domenica Juan Pappier, vice direttore ad interim della Divisione Americhe di Human Rights Watch. «Sono preoccupato per quel che potrebbe accadere dopo il 20 agosto. Ci sono molti, molti settori corrotti in Guatemala che hanno dimostrato di essere disposti a fare qualsiasi cosa per impedire ad Arévalo di diventare presidente». L’incognita è tutta in quel “qualsiasi cosa”. Gli Stati Uniti, al momento, restano spettatori interessati, un po’ defilati, ma soprattutto attenti a trovare il modo di arginare il fenomeno della migrazione tra Guatemala e Stati Uniti, che ultimamente ha raggiunto livelli record.
«Il governo degli Stati Uniti si augura che sia consentito a coloro che sono stati eletti di governare e assumere il potere», ha dichiarato, con estrema prudenza, l’ambasciatore americano in Guatemala. Il presidente Arévalo sa bene che il placet della Casa Bianca è ancora oggi indispensabile: e perciò ha deciso di giocare d’anticipo, tendendo una mano verso Washington: «La prima cosa che accadrà – ha dichiarato – è che in realtà gli Stati Uniti troveranno in me un partner che sta sradicando la corruzione e avrà tutta l’intenzione di lavorare effettivamente per lo sviluppo del Guatemala». Per fiaccare le resistenze, prevedibili, della presidenza uscente, gli Stati Uniti stanno anche prendendo in considerazione l’ipotesi di minacciare una sospensione delle esportazioni di zucchero (il Guatemala è tra i primi 10 esportatori mondiali di zucchero) se sarà impedito ad Arévalo di assumere l’incarico.
(Fonte articolo: articolo del 23/08/23 di Il Bolive-Università di Padova; foto di La Repubblica)