Sin dalle prime settimane successive alla sua elezione, nel 2019, il Presidente di El Salvador Nayib Bukele ha fatto della lotta alla criminalità uno dei capisaldi della propria agenda di Governo.
Sotto la sua presidenza, in effetti, il Paese centramericano ha vissuto il periodo meno violento dalla fine della guerra civile nel 1992, con un calo netto degli omicidi negli ultimi anni. Nel 2015 il tasso era di 103 ogni 100mila abitanti (a scopo comparativo, in Germania è mediamente di 0,3), ma da allora ha cominciato a diminuire a una velocità sorprendente soprattutto a partire da giugno 2019, all’indomani dell’elezione dell’attuale Presidente.
Nel 2021 era arrivato a 18 ogni 100mila abitanti. I funzionari governativi attribuiscono tale successo agli effetti delle politiche securitarie del Governo – il cosiddetto Plan de Control Territorial, – ma secondo molti rapporti di stampa e ONG (tra cui Human Rights Watch) alla base del trend decrescente ci sarebbe piuttosto una sorta di accordo tra Governo e gang criminali (MS-13 e Mara 18 su tutte).
L’esasperazione della popolazione salvadoregna di fronte alle violenze sempre più diffuse nel Paese contribuisce a spiegare perché la politica di Bukele nel campo della sicurezza gli è valsa una popolarità molto ampia, con punte addirittura dell’80%, fattispecie che lo pone al comando del piccolo Stato centroamericano in una posizione molto solida.
Prima del marzo 2022 il dibattito pubblico si soffermava quindi perlopiù sugli atteggiamenti autoritari di Bukele, piuttosto che sulle violenze sempre più sporadiche delle gang. Il 26 marzo segna tuttavia la fine dell’idillio: 62 persone vengono uccise nello stesso giorno, il bilancio peggiore della storia salvadoregna. Anche negli anni più bui (2014-2015) il numero di omicidi giornaliero superava al massimo i 50. La risposta del Governo è dura, immediata, imperniata su detenzioni di massa e sospensione dei diritti. In un tweet (suo mezzo di comunicazione preferito) Bukele chiede al Parlamento di dichiarare immediatamente lo stato di emergenza nazionale.
Il Congresso, dominato dal partito al potere, approva la misura per 30 giorni, durante i quali vengono sospese alcune libertà garantite dalla Costituzione, come quella di associazione, e viene eliminato il divieto sul monitoraggio delle telecomunicazioni. Già 3 giorni dopo, Human Rights Watch avvertiva che lo stato di emergenza potesse favorire abusi di vario genere. Lo stesso verrà poi rinnovato per sei volte (l’ultima a settembre), anche con un certo supporto popolare.
In sei mesi il bilancio parla di 55mila arresti, ai quali, secondo l’organizzazione per i diritti umani Cristosal, si accompagnano almeno 80 detenuti morti e tra le 2.700 e 3mila denunce per arresti arbitrari. La Mara 18 si è da subito dichiarata estranea agli omicidi del 26 marzo, incolpando i rivali della MS-13.
El Faro, giornale salvadoregno online, ha avvalorato tale tesi sostenendo che i pandilleros della MS-13 accusano il Governo di non aver rispettato i patti in piedi da almeno due anni e mezzo. Più nello specifico, e secondo quanto lo stesso giornale riferisce di aver appreso da portavoce della pandilla, il Governo avrebbe portato a termine una serie di arresti ai danni di personalità rilevanti della MS-13 tramite uno stratagemma.
Nonostante la popolarità che riscuote il pugno duro di Bukele presso la popolazione, nel lungo termine tale strategia potrebbe rivelarsi controproducente. Le maras potrebbero disgregarsi, riorganizzandosi poi in una miriade di attori il cui controllo sarebbe ancora più difficile. Piuttosto, nonostante le Forze dell’Ordine e il rispetto della legge continueranno a essere i fari nella lotta alla violenza tra gang, si rende necessario un approccio più sostenibile alla questione, includendo forme di riabilitazione e reintegrazione a beneficio di coloro i quali vogliano chiudere con il proprio passato criminale.
Fonti: Articolo del 4/11 del Caffè Geopolitico. Foto di News360.