Gesù nasce in Myanmar

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È Natale in Myanmar.

Un Paese di 55 milioni di abitanti, grande due volte e mezza l’Italia, tra la Cina e l’India, a grande maggioranza buddhista.

Da decenni è nelle mani dei militari e, dopo alcuni anni di governo civile, dal 1° febbraio 2021 è vittima di un golpe del Tatmadaw, l’esercito. Migliaia gli arrestati, oltre 2500 le vittime, un milione e mezzo i rifugiati nella foresta, violati i diritti umani, più di 100 i condannati a morte, alcune condanne sono state eseguite. È crisi umanitaria, con l’economia al tracollo.

Un Paese martoriato È decisamente Natale. “Consolate, consolate il mio popolo – dice il nostro Dio. Parlate al cuore di Gerusalemme e gridatele che la sua tribolazione è compiuta […]. Ogni valle sia innalzata, ogni monte e ogni colle siano abbassati; il terreno accidentato si trasformi in piano e quello scosceso in vallata” (Isaia 40, 1-2-3-5).

Una grande tribolazione attraversa il popolo birmano, da molti decenni. Ma oggi la sofferenza è immensa. “Imperdonabile fino alla fine del mondo”, dice l’attivista democratico Min Ko Naing, leader degli studenti nella rivolta del 1988.

Il popolo resiste, resiste Aung San Suu Kyi, isolata nel carcere di Naypyidaw, sottoposta a processo e a condanne. Attendono la salvezza, con la fiducia che essa arriverà. Mettono a disposizione la loro vita.

Il cammino di liberazione del popolo birmano, composto da almeno 135 etnie, evoca il cammino del popolo ebraico, delle tribù di

di Israele. Un cammino accompagnato sempre dai profeti che annunciavano la salvezza, e l’Emmanuele.

Gli aiuti umanitari impossibili
Parlo tuttora con l’interno del Myanmar, e con la comunità internazionale. Mentre sta per compiersi il terzo anno dell’oppressione dal golpe militare, non vi sono canali per gli aiuti umanitari. La gente si aiuta come può, mette in comune, si scambia. Aiutano le associazioni locali, ma sono allo stremo. Quelle nazionali sono rare, controllate dai militari. Quelle internazionali pressoché inesistenti. Nello Stato dei Karenni, al confine con la Thailandia, l’ONU ha due soli presidi, inefficaci. L’ONU opera là dove decidono i militari.

Mancano cibo, farmaci e attrezzature sanitarie, i feriti nei conflitti rischiano la morte per l’impossibilità di raggiungere le cure. La popolazione è unita, si auto-organizza. Con qualche clinica mobile, su camion, ma mancano specialisti e infermieri. In quella zona almeno un centinaio di persone sono disabili a causa delle mine.

Almeno 400 tra medici e infermieri prestano servizio volontario. Molti i profughi e i rifugiati nella foresta. La gente fugge dai villaggi, occupati dai militari che devastano e incendiano.

I campi sono coltivati per 6 mesi, manca l’acqua, mancano ripari. Si utilizzano gli alberi, specialmente il bambù, per costruire riparo, per scaldare il cibo.

Gli aiuti sono comunque discontinui, e lo sforzo locale non può essere infinito. Mancano i beni di prima necessità. Il sistema di militarizzazione ha instaurato un sistema di abusi e violenze. Tutti soffrono.

Una storia di passione e di salvezza
La chiesa cristiana, minoritaria, è in difficoltà, sono bombardate anche le chiese.

I traumi psicologici, le depressioni sono diffusi. Le donne soffrono di più.

Eppure il popolo resiste, cerca con fiducia di vincere, per incontrare un cielo nuovo e una terra nuova.

Il Natale è anche l’annuncio della passione e della risurrezione, nel giorno dell’Epifania. La storia del Myanmar è oggi un’autentica storia di salvezza.

“Lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c’era posto per loro nell’albergo” (Luca 2, 1-7).

Più di un milione e mezzo i rifugiati, le donne partoriscono nella giungla. Restano i telefonini, per il contatto con il mondo, ma la connessione è incerta, vanno a cercarla sugli alberi.

Non vi sono canali di aiuti umanitari, il controllo dei militari è duro. Alcuni nostri canali riservati consentono l’invio periodico di denaro, una goccia nel mare.

La fuga in Egitto di Giuseppe e Maria con Gesù è il simbolo della vita di milioni di esseri umani, di ieri e di oggi. Migranti, attraverso i deserti e i mari. È loro Natale.

“C’erano in quella regione alcuni pastori che, pernottando all’aperto, vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge” (Luca 2, 1-14). L’annuncio è rivolto ai pastori, ai più poveri. Essi capiscono, accolgono l’annuncio con gioia, lodando il Signore.

Nella storia del Natale c’è il Cantico di Maria, dopo la visita alla cugina Elisabetta. È il Magnificat. “L’anima mia magnifica il Signore […].  Ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore. Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili” (Luca 1, 46-55).

Quando ho incontrato Aung San Suu Kyi la prima volta, a Naypyidaw, nel febbraio 2013, nel suo ufficio in Parlamento, al ritorno sulla strada verso Yangon nel mio cuore ho cantato il Magnificat. Al rientro a casa le ho scritto, e l’ho trascritto per lei. Mi ha risposto: “Nella comune vicinanza spirituale ho letto con vigile attenzione il Magnificat”.

Alzare la voce per il Myanmar perché sia Natale
La sofferenza nella storia è sempre lievito di cambiamento. L’evento cristiano è, nella storia umana, una storia di salvezza. So che in Myanmar sarà così. Sarà così in ogni angolo della terra. Sarà così in Ucraina, sarà così a Goma, nel Nord Kivu della Repubblica Democratica del Congo, percorso dalla guerra e dalla violenza, nonostante la presenza dei caschi blu dell’ONU.

Come sarà il nostro Natale, qui? È lo stesso Natale? Come possiamo viverlo insieme, se non condividendo? Come possiamo.

E come non comprendere che il loro Natale nella solitudine, nell’abbandono, nella sofferenza dipende dal nostro silenzio, dalla nostra indifferenza?

Il silenzio della comunità internazionale sul Myanmar non è evidente? Come possiamo vivere così il Natale?

Ricordando Bonhoeffer: “Chi non grida con gli ebrei non può cantare il gregoriano”, possiamo dire: “Se non gridi con il Myanmar non puoi cantare l’alleluia della notte di Natale”.

Fonti: Articolo di Albertina Soliani di Viandanti.org del 21/12/22. Foto Gonewiththewind.