Un vento freddo soffia dagli altopiani che circondano Comalapa, una cittadina nel centro del Guatemala. In lontananza il maestoso Volcán de Fuego, il più attivo dell’America Centrale, rimbomba minacciosamente. Sfidando le raffiche di vento gelate Rosario Tuyuc, 36 anni, accende un fuoco e comincia a invocare la protezione degli antenati. Mentre le fiamme diventano più alte Tuyuc prepara dei piccoli mazzi di fiori, rami di rosmarino e manciate di semi da gettare nel fuoco come offerte. “Guarda com’è vivo il fuoco”, esclama aggiungendo qualche candela e altri rami. “Sento che i nostri antenati sono felici di averci qui con loro oggi”.
Tuyuc ha occhi e capelli scuri, una risata contagiosa e un figlio. È una ajq’ij, una guida spirituale in kaqchikel, una delle ventuno lingue maya che ancora si parlano in Guatemala. Le cerimonie del fuoco, come quella che lei sta celebrando oggi, fanno parte della cultura delle popolazioni native: si organizzano per festeggiare l’anno nuovo, entrare in comunicazione con gli antenati o chiedere consiglio nei momenti fondamentali della vita. Le più importanti si svolgono nelle antiche città maya sparse per il paese. I maya preferiscono chiamarli luoghi cerimoniali o siti energetici invece di “rovine”: è un modo per sottolinearne l’importanza e il ruolo attivo che ancora svolgono nella loro cultura.
Tuyuc indossa sempre abiti tradizionali e discende dalle popolazioni che i conquistatori spagnoli trovarono al loro arrivo in America Centrale nel 1524. Per 170 anni i maya opposero una fiera resistenza agli invasori, ma le armi più all’avanguardia e le malattie portate dagli europei ebbero la meglio. Durante la colonizzazione, che proseguì fino all’ottocento, i maya furono convertiti con la forza al cattolicesimo e costretti a imparare lo spagnolo e a darsi nomi cattolici. I loro testi furono bruciati, la cultura tradizionale e la religione annientate. Molti finirono come schiavi nel sistema di piantagioni creato dai nuovi dominatori.
Anche dopo il 1821, quando il Guatemala diventò indipendente, i maya hanno continuato a essere trattati come cittadini di seconda classe. “Sono considerati un popolo arretrato, restio ad abbandonare lo stile di vita tradizionale e quindi nemico del progresso. Per la classe dirigente guatemalteca e per la popolazione non nativa, sono indios, gente arretrata, sporca e selvaggia”, spiega Víctor Montejo, professore emerito di studi sui nativi americani all’università della California, negli Stati Uniti. “La loro identità culturale e il loro legame con il passato non sono mai stati pienamente riconosciuti, perché secondo molti guatemaltechi la civiltà maya è morta”, aggiunge.
Eppure i maya non sono scomparsi, e i loro costumi e la loro cultura sono sopravvissuti fino a oggi. Il bosco dove Tuyuc celebra la cerimonia del fuoco si chiama Oxlajuj Came, il luogo degli antenati. “È uno dei quattro posti più sacri di Comalapa, situati lungo i punti cardinali venerati dai maya”, spiega la donna. “Negli ultimi anni sono aumentate le persone che arrivano per rendere omaggio agli antenati e riconnettersi con loro. Anche molti nativi cominciano a riappropriarsi delle loro radici spirituali”.
Oggi gli attivisti come Tuyuc sono alla testa di un movimento delle popolazioni native per rivendicare il loro passato glorioso, la loro ricca cultura e il posto che gli spetta nel Guatemala moderno. Lo fanno attraverso l’impegno politico e sociale, le arti, l’agricoltura tradizionale e la riscoperta della “nostra spiritualità secondo cui tutto ha vita: la terra, gli alberi, le pietre, il vento, il fuoco”, spiega. “La mia missione è mostrare che ci sono altri modi di concepire l’esistenza e di comunicare con il mondo, oltre a quelli che ci hanno imposto gli europei”.
La situazione sta cominciando finalmente a cambiare. Nel 2019 Thelma Cabrera, un’attivista per i diritti umani della comunità maya mam, si è candidata alla presidenza del Guatemala e ha ottenuto più del 10 per cento dei voti. Nel 2020 la creazione della Plataforma de mujeres indígenas, un’organizzazione di 300 donne native che promuove i diritti delle donne maya in ogni settore della società – politico, economico, culturale – ha incoraggiato una nuova consapevolezza sul loro ruolo nella società guatemalteca. Inoltre di recente molte comunità indigene hanno registrato la proprietà delle loro terre ancestrali, proteggendole dalle attività di estrazione o dallo sfruttamento agricolo intensivo.
Negli ultimi mesi hanno partecipato alle proteste contro l’élite politica del paese, che per mesi ha ostacolato l’insediamento del socialdemocratico Bernardo Arévalo, vincitore a sorpresa delle elezioni presidenziali nell’agosto 2023 con un programma contro la corruzione. Arévalo ha assunto la guida del paese il 15 gennaio e la forza delle manifestazioni che l’hanno sostenuto ha costretto la classe dirigente a prendere atto della crescente influenza dei nativi nel paese.
I maya sono circa la metà della popolazione guatemalteca e si dividono in 21 comunità, ciascuna con una propria lingua, un proprio abbigliamento e usanze particolari. Ma tutte hanno in comune una spiritualità basata sul culto degli antenati e degli elementi naturali, e un rapporto profondo, quasi simbiotico con la madre Terra. L’agricoltura e la medicina tradizionale ne sono parte integrante, hanno ottenuto apprezzamenti in tutto il mondo per la loro sostenibilità e conoscenza delle piante e dei ritmi naturali. Di recente le Nazioni Unite le hanno inserite in un rapporto sulla sostenibilità di otto sistemi agroalimentari indigeni che possono aiutare a contrastare gli effetti peggiori del cambiamento climatico.
Invece di cercare il massimo rendimento da un terreno, infatti, l’agricoltura maya punta sui benefici a lungo termine di una gestione sostenibile. Nei secoli quest’approccio si è rivelato adattabile al clima e capace di nutrire una delle civiltà più avanzate del mondo. I maya lo seguono ancora oggi: ne è un esempio il terreno seminato a fagioli e granturco di Don Francisco, un agricoltore di 60 anni dell’Amatillo, una comunità agricola alla frontiera con l’Honduras.
La coltura mista di mais e fagioli aiuta a fissare nel suolo l’azoto, che agisce come fertilizzante naturale. Nei campi coltivati crescono piante mediche e intorno ci sono alberi che trattengono l’umidità, fornendo ombra nella rovente calura estiva. Una varietà di piante diverse forma una barriera naturale che protegge i campi terrazzati dalle frane e dall’erosione del suolo nella stagione delle piogge; le erbe spontanee non sono estirpate, perché quando si decompongono “sono fertilizzanti naturali e allo stesso tempo barriere per trattenere l’acqua piovana nei campi”, spiega Don Francisco. Usa solo semi autoctoni, risultato di un attento processo di selezione che risale a migliaia di anni fa. “Non usiamo mai quelli geneticamente modificati. E neanche fertilizzanti chimici”, dice.
I maya sono orgogliosi della loro conoscenza del mondo naturale e considerano la protezione dell’agricoltura tradizionale, della cultura e del territorio parte della stessa lotta. Negli ultimi sei anni i chortí – una comunità maya di circa undicimila persone – si sono mobilitati contro un’azienda mineraria locale per proteggere le loro terre dallo sfruttamento e alla fine la corte suprema ha sospeso la licenza di estrazione.
Marvin Najera, 31 anni, e altri attivisti della comunità di Chiramay hanno fermato un progetto turistico sul Cerro del Quetzal, una montagna che considerano sacra. “Questa montagna rappresenta la nostra comunità e vogliamo conservarla come ci è stata donata”, dice. “Non possiamo vivere senza la madre Terra, dobbiamo prendercene cura”.
Oggi Najera è uno dei principali custodi della montagna. Mentre si fa lentamente strada nei boschi che circondano il cerro viene avvolto da una nebbia fitta. “Succede ogni volta che vengo. Significa che la montagna vuole conservare i suoi segreti”, spiega. “Dobbiamo sempre chiedere permesso allo spirito dei boschi prima di entrarci, altrimenti ci perderemmo e non riusciremmo a uscirne”.
La foresta è straordinariamente silenziosa. Gli unici suoni sono quelli dei nostri passi sul sentiero fangoso coperto di foglie secche e il caratteristico cinguettio del quetzal, l’uccello a rischio di estinzione che è l’emblema nazionale del Guatemala. Najera ha un’altra ragione, più personale, che lo lega alla montagna. Sulle sue pendici ha ricevuto la barra di legno simbolo della sua elezione a leader indigeno chortí. Da quel giorno la sua lotta per rivendicare l’identità dei maya e proteggere la natura per le generazioni future sono due lati della stessa medaglia.
Ma l’affermazione dell’identità nativa non è semplice. Il Guatemala è un paese con una storia tormentata. Secoli di oppressione hanno avuto conseguenze pesanti sulla popolazione indigena, che vive soprattutto nelle regioni più povere del paese, con scarse opportunità d’istruzione e di lavoro. L’egemonia culturale della classe dirigente e più ricca ha demonizzato a lungo queste popolazioni, alimentando il rifiuto e il senso di vergogna nei confronti della loro stessa cultura.
“Alcuni di noi considerano il fuoco un elemento negativo, una specie di stregoneria”, spiega Tuyuc, spesso chiamata “strega” dalle persone della sua stessa comunità. “Io non me la prendo, anzi ci rido su”, dice. “Voglio rivendicare il posto che il popolo maya merita nella nostra società. Se questo significa essere una strega, allora lo sono”.
In nessun altro luogo le contraddizioni della dolorosa transizione del Guatemala dopo la guerra civile sono più evidenti che a Oxlajuj Came, il bosco sacro dove Tuyuc celebra le sue cerimonie. Durante il conflitto, dal 1960 al 1996, nella foresta furono scavate le fosse comuni. Scoppiato inizialmente come scontro tra lo stato (dal 1954 al 1985 il Guatemala fu governato da una serie di giunte militari) e la guerriglia di sinistra, presto si trasformò in un pretesto per fare terra bruciata intorno alle popolazioni native, sospettate di dare rifugio e supporto ai ribelli.
Più di duecentomila persone sparirono o furono uccise. Molte furono rapite, torturate e uccise dalle forze governative. Secondo la commissione guatemalteca per il chiarimento storico, sostenuta dalle Nazioni Unite, nell’83 per cento dei casi le vittime erano native maya.
Alcune recenti esumazioni hanno portato alla luce più di 170 cadaveri a Oxlajuj Came. “Nel 2021 abbiamo identificato due nostri parenti che erano ‘scomparsi’ durante la guerra”, spiega la pittrice Éster Miza, 40 anni. “Due mesi fa, nello stesso luogo, abbiamo trovato anche il suocero di mia sorella”.
Queste scoperte hanno scosso Miza, che ha dedicato la sua vita alle vittime della guerra civile raccogliendo le loro storie strazianti e costruendo una memoria visiva di quello che hanno sofferto.
Le donne native sono state tra le vittime principali degli abusi dell’esercito. Molte furono stuprate dopo che i militari avevano portato via i figli e i mariti. “Ascoltare quelle storie era difficile. In alcuni momenti ho sentito il bisogno di un sostegno psicologico. Non riuscivo più a dormire”, ricorda la donna. “Ma ho elaborato il dolore con i miei dipinti e ho mostrato al mondo quello che i familiari delle vittime avevano condiviso con me”.
Oggi i quadri di Miza, con le terribili scene della guerra civile, adornano le mura del cimitero di Comalapa e di Oxlajuj Came. Sono stati inseriti in tre libri sulla storia recente delle vicine comunità maya. Nel 2022 un tribunale guatemalteco ha condannato cinque militari per stupro e crimini contro l’umanità ai danni di un gruppo di donne maya. Eppure rivisitare il passato del paese è ancora un tabù per molti guatemaltechi. Alcuni abitanti del suo stesso villaggio chiamano Miza “quella che disegna i soldati”.
Perfino la sua famiglia le aveva sconsigliato di affrontare argomenti così sensibili in un paese dove molti attivisti sono stati uccisi per le loro denunce. Ma Miza ne ha fatto la missione della sua vita: “Ho girato scuole e università, parlando a giovani che non sapevano nulla della guerra. Con i miei quadri risveglio la loro curiosità”, spiega. “Non possiamo dimenticare la nostra storia, ma forse possiamo impedire che si ripeta”. Alla fine i genitori di Miza hanno accettato la missione della figlia.
Quanto a Tuyuc, racconta che anche in un villaggio profondamente cattolico come Comalapa gli indigeni vogliono cercare le loro origini spirituali. Qualche tempo fa ha sposato una coppia che ha rinunciato al matrimonio cattolico a favore di una celebrazione tradizionale. Nella sua minuscola casa, riceve persone che le chiedono di organizzare cerimonie, a volte in segreto. “Si presentano la sera tardi o la mattina presto per non farsi vedere”, racconta ridendo. “Mi chiedono di non dire a nessuno che sono venuti a trovarmi”.
Secondo lei è la prova del fatto che la strada scelta insieme ad altri attivisti nativi è irreversibile: “Abbiamo geni maya nel nostro sangue, non possiamo dimenticare da dove veniamo”, afferma. “Le persone continueranno a venire da me, perché sanno che queste tradizioni fanno parte di noi”.
Fonti: Articolo de l’Internazionale 08/03/24. Foto di Lifegate