Dopo cinque interminabili mesi di tormentata transizione Bernardo Arevalo, sociologo di 65 anni, assumerà finalmente oggi la presidenza del Guatemala in quella che può essere considerata forse l’unica buona notizia del 2023 in America Latina.
Si era ampiamente imposto al ballottaggio dello scorso 20 agosto dopo aver superato il primo turno a giugno nella sorpresa generale, visto che, da ultimo nei sondaggi, era stato l’unico candidato progressista (a mo’ di foglia di fico) a non essere arbitrariamente escluso dalla contesa dal cosiddetto “pacto de los corruptos” al governo. Che poi, spiazzato, ha tentato di tutto per impedirgli di arrivare all’insediamento mobilitando il proprio fedelissimo braccio giudiziario che gli ha scatenato contro una vera e propria persecuzione.
PRIMA sospendendo la legalità del suo Movimiento Semilla (seme) per presunte irregolarità nella raccolta delle firme all’atto della sua costituzione nel lontano 2019. Poi cercando di annullare l’immunità dello stesso Arevalo, già deputato, accusato di “finanziamenti illeciti” e di aver tenuto due anni orsono un discorso all’Università San Carlos della capitale “sobillando” gli studenti che la stavano occupando. Infine incriminando ben quattro dei cinque titolari del Tribunale Supremo Elettorale (che avevano certificato i risultati) inventandosi anomalie durante lo scrutinio e frodi nell’acquisizione del sistema informatico di trasmissione dei dati. Con i relativi inquisiti che sono subito fuggiti all’estero per scampare al carcere.
Il tentato golpe istituzionale, sotto la regia della procuratrice generale Consuelo Porras, aveva però scatenato la reazione di numerose organizzazioni di base e soprattutto la mobilitazione delle autorità ancestrali maya che da ottobre hanno di fatto paralizzato per oltre un mese la circolazione in tutto il paese.
E DIRE che le varie etnie indigene, che costituiscono la metà dell’intera popolazione, non avevano sostenuto Arevalo (della classe media bianca) durante il processo elettorale, per il quale avevano candidato la loro Thelma Cabrera (esclusa dalla contesa). Ma a posteriori si sono aggregate intorno a lui coscienti che costituisse il baluardo dell’ultimo residuo di legalità. E curiosità vuole che invece il magistrato più fedele della torquemada guatemalteca Porras sia proprio un indigeno caciquel, Rafael Curruchiche, a capo della Sezione speciale contro l’Impunità, che è giunto persino a chiedere l’annullamento tout court delle elezioni e la loro ripetizione.
A questo calvario ha posto fine solo due settimane fa la Corte costituzionale (pur senza dirimere fino in fondo i contenziosi giuridici) sentenziando la piena legittimità dell’attribuzione della massima carica dello stato ad Arevalo. Non è un caso che qualche giorno dopo uno dei membri della massima istanza del potere giudiziario sia stato minacciato di morte dai trafficanti di droga locali (legati ai cartelli del confinante Messico). Che insieme a una fetta consistente della storica oligarchia hanno convertito il Guatemala in un narcostato.
Oltre alle spontanee proteste popolari interne, determinante per l’esito positivo della vicenda sono state le pressioni all’unisono della comunità internazionale. A cominciare paradossalmente da quegli Stati Uniti che nel 1954 (esattamente 80 anni fa) rovesciarono con un colpo di stato il decennio della Rivoluzione Democratica guatemalteca di cui fu pure presidente il padre di Bernardo Arevalo, Juan José.
JOE BIDEN aveva disposto già da un paio d’anni la sospensione dei visti e sanzioni ad personam ai giudici al servizio del corrotto sistema politico (compreso il congelamento dei conti correnti). Ma il mese scorso ha esteso quei provvedimenti a ben 300 tra funzionari di governo, imprenditori e i 108 deputati della destra che hanno votato per la sospensione dell’immunità ad Arevalo. Con le conseguenti ire del presidente uscente Alejandro Giammattei (tuttora orgogliosamente titolare di un passaporto italiano vigente) per “interferenza negli affari interni” del suo paese. Allo stesso modo il parlamento europeo si è schierato in difesa del risultato elettorale, tanto più che erano stati in primo luogo gli osservatori internazionali del vecchio continente a ratificare sul posto la regolarità delle consultazioni. Senza contare poi l’Organizzazione degli Stati americani (Osa) che ha realizzato ben nove missioni in questi cinque mesi per garantire un “ordinato” passaggio dei poteri.
Da ultimo ci si era messa pure la Corte interamericana per i diritti umani ad allertare sulla “rottura della normalità costituzionale” in Guatemala.
AREVALO e la sua vice Karin Herrera (lei sottoposta a un formale mandato d’arresto) sono così riusciti a presentare l’altro giorno la lista dei ministri: sette uomini e sette donne. Di cui una sola indigena (alle politiche del lavoro). A loro l’arduo compito di governare questo paese. Senza maggioranza in parlamento e ancor più col vincolo democratico di non poter destituire le autorità giudiziarie, che sicuramente continueranno a perseguirli almeno fino al prossimo anno, quando esauriranno il loro incarico.
IL “PATTO dei corrotti” ha comunque cominciato a mostrare le prime crepe interne, forse per adeguarsi alla nuova congiuntura. Clamorosa è stata al riguardo la rimozione prima e l’arresto poi del ministro degli interni uscente, reo di non aver fatto intervenire drasticamente le forze di polizia durante lo sciopero generale di ottobre in cui le organizzazioni indigene chiedevano la destituzione della procuratrice Porras. Anche la confindustria locale si è divisa: per i severi moniti di Washington da un lato e per il rischio che una persistente instabilità possa pregiudicare ulteriormente la performance di un’economia già di per sé assai precaria. Che sopravvive grazie anche a un decisivo 20% del pil in rimesse familiari, che arrivano proprio dagli emigrati negli States.
I nuovi rapporti di forza si vedranno in ogni caso presto dalle alleanze che si formeranno fra i 16 partiti del parlamento che si insedierà contestualmente al presidente. Parlamento che fino ad oggi è stato saldamente nelle mani della peggiore destra. Nonché dalla presidenza e il direttivo che ne scaturiranno. Da cui sarebbe in ogni caso escluso il Movimiento Semilla (terza forza politica) in quanto giudiziariamente “sospeso”, e i cui 23 deputati (su 160) saranno costretti ad assumere l’incarico come “indipendenti”.
Per quanto riguarda l’esercito, per decenni decisivo in Guatemala con le dittature di generali genocidi come Efraín Rios Montt, avrebbe assunto negli ultimi anni un basso profilo “politico”. Salvo collaborare discretamente con i narcos per il transito della cocaina verso il nord.
L’ORMAI EX Giammattei non ha invece ancora deciso se consegnare di persona, come da protocollo, la fascia presidenziale al suo successore Arevalo. A scanso di equivoci, per non perdere l’immunità, ha pensato bene di farsi eleggere deputato al Parlamento Centroamericano, istituzione sovranazionale con sede proprio in Guatemala. Intanto il primo fra le delegazioni straniere a giungere a Città del Guatemala per il passaggio di consegne è stato re Felipe VI di Spagna.
Fonti: Articolo del 14/01/24 de Il Manifesto