Crescono incertezza e tensioni in Guatemala all’indomani dell’inaspettata elezione del candidato progressista Bernardo Arévalo, che da protocollo dovrebbe assumere la fascia presidenziale il prossimo 14 gennaio.
Dopo che, a conteggi ultimati, il Tribunale Supremo Elettorale aveva rigettato l’istanza della procuratrice generale Consuelo Porras, che metteva in discussione la legalità stessa del Movimiento Semilla per presunte irregolarità nella raccolta delle firme durante la sua costituzione nel 2019, le forze di polizia hanno fatto irruzione nella sede del Tse sequestrando documenti e casse di schede elettorali nell’intento di azzerare il partito e con esso la nomina di Arévalo.
Immediata la reazione di Semilla e della società civile organizzata con manifestazioni nelle principali piazze del paese. Cui si sono sommate stavolta anche le istante autoctone, a cominciare dalle Autorità comunali dei 48 Cantoni di Totonicapàn, un’antica entità quiché autogestita (riconosciuta internazionalmente) che ha indetto da questa settimana uno sciopero a tempo indeterminato con il blocco delle principali arterie del paese (compresi alcuni accessi alla capitale). Il tutto sollecitando la rimozione oltre che della Porras, del giudice Freddy Orellana e soprattutto di Rafaél Curruchiche, capo della malfamata Procura speciale contro l’impunità. In una parola il fulcro dell’apparato giudiziario in mano alla corrotta oligarchia storica del paese. Lunedì erano oltre una trentina le località bloccate, ridotte ieri alla metà, ma che via via vengono rioccupate pacificamente (anche la notte) dai manifestanti senza che al momento si siano prodotti scontri con le forze dell’ordine.
Si tratta di un decisivo salto di qualità della protesta in difesa del voto espresso, se si tiene conto che la candidata indigena Thelma Cabrera (per il Movimiento para la Liberación de los Pueblos) non aveva dato indicazione alcuna di voto dopo essere stata arbitrariamente esclusa dalla contesa. Come a dire che si è prodotta una significativa convergenza fra il mondo maya e l’area di sinistra della classe media bianca da cui provengono sia Arévalo che la sua vice designata Karin Herrera. In un paese che, a differenza dei suoi vicini Honduras, El Salvador e Nicaragua al 90% meticci, vanta una popolazione in maggioranza originaria. Persino la nobel per la pace 1992 Rigoberta Menchù è tornata a farsi viva sollecitando il rispetto del risultato elettorale. Dopo che nel 2007, da candidata presidenziale, non era neppure riuscita lontanamente a riunire intorno a sé le 23 etnie maya.
Dopo il primo turno del 25 giugno scorso, con il sorprendente passaggio di Arévalo al ballottaggio, Currichiche, Orellana e Porras avevano sentenziato l’eliminazione di Semilla. Ma il Tse e soprattutto la Corte Costituzionale dichiaravano irricevibile il provvedimento. Allo stesso modo sarà la massima corte a decidere il da farsi entro il 31 ottobre prossimo, data di chiusura formale della procedura elettorale. E l’antagonista al secondo turno, la conservatrice Sandra Torres, oltre a non riconoscere la vittoria di Arévalo, ha chiesto la ripetizione entro quest’ultima scadenza del testa a testa, stavolta con il candidato giunto terzo al primo turno: Manuel Conde del partito Vamos, dell’impresentabile presidente uscente Alejandro Giammattei.
La comunità internazionale, che aveva seguito con propri osservatori ai seggi la regolarità delle votazioni, si è schierata saldamente in difesa della «legalità democratica». Dalle Nazioni Unite all’Unione Europea, con alla testa il governo di Madrid. Ma particolarmente si è mossa l’Organizzazione degli Stati Americani col suo segretario generale, l’uruguayano Luis Almagro, giunto personalmente a Città del Guatemala per propiziare una transizione presidenziale ordinata.
Paradosso vuole che a sostenere più di ogni altro l’avvento di Arévalo ci siano gli Stati Uniti, la cui United Fruit Company (insieme alla Cia) rovesciarono nel 1954 il decennale governo rivoluzionario guatemalteco di cui il padre di Bernardo, Juan José, fu per gran parte alla guida.
Fonti: Articolo del 04/10/23 de Il Manifesto. Foto de la prensa latina