Una situazione complessa e delicata emerge dal lavoro degli esperti delle Nazioni Unite che stanno cercando di ricostruire il quadro dei diritti violati e dei possibili crimini contro l’umanità commessi in Myanmar dal colpo di Stato dello scorso anno.
“Gli autori devono sapere che non possono continuare ad agire nell’impunità. Stiamo raccogliendo e catalogando le prove, in modo che un giorno ne dovranno rispondere”, ha affermato in una nota Nicholas Koumjian, capo del meccanismo investigativo indipendente delle Nazioni Unite (IIMM) per il Myanmar. L’IIMM, creato nel settembre 2018 dal Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, ha operato su quasi 200 fonti tra interviste, video, fotografie, immagini satellitari e social network. Lo scopo era raccogliere e analizzare prove che potessero avvalorare l’ ipotesi di crimini, sin dal 2011, compresa la persecuzione della minoranza musulmana Rohingya. A questo lavoro si è unita la mole di informazioni seguite al colpo di Stato militare del 2021.
“Questo ha rappresentato una sfida significativa, date le risorse limitate del meccanismo. Gli eventi specifici dalla rivolta militare del febbraio 2021, sono ora al centro delle nostre indagini”, afferma il rapporto dell’organismo delle Nazioni Unite. Nella nota, i ricercatori ricordano anche l’esecuzione della condanna a morte di quattro oppositori, avvenuta il 25 luglio dopo un processo considerato senza garanzie. L’Onu esprime preoccupazione, fra le altre cose, per le condizioni della minoranza dei Rohingya, che vive in una situazione di “apartheid”: oltre 720.000 sono dovuti fuggire dal Myanmar al vicino Bangladesh dopo le operazioni militari del 2016 e 2017 anch’esse al vaglio degli inquirenti internazionali.
Nel febbraio scorso – lo ricordiamo – i militari hanno preso il potere con un colpo di Stato che ha fatto precipitare il Paese in una grave spirale di repressione e violenza, con le opposizioni ridotte alla clandestinità. E di aumento dei crimini contro l’umanità parla anche Cecilia Brighi, segretario generale dell’Associazione Italia-Birmania Insieme: “La nostra rete di contatti sul terreno – parliamo di dissidenti e organizzazioni sindacali – ha riportato dati di violazioni terribili che la giunta militare avrebbe perpetrato nei confronti dei cittadini nei 18 mesi dopo il golpe”. “Questi crimini – prosegue Brighi – sono stati presentati più volte all’Asean e all’Onu” senza che scaturisse una risposta significativa, “come l’embargo sulle armi. Manca un cambio di passo della comunità internazionale”.
Ancora più complessa è la questione relativa, secondo Brighi, alle ritorsioni contro il dissenso sia da parte di oppositori politici, sia da parte delle numerose minoranze etniche presenti nelle zone rurali: “Ci sono incendi di interi villaggi; migliaia di dissidenti in carcere, dove si registrano stupri e torture; sono state eseguite quattro pene capitali e altre 117 persone sono nel braccio della morte. Inoltre la popolazione è alla fame perché le fabbriche non lavorano, e il Paese rischia il default”. In questa cornice conclude Cecilia Brighi, è alta la preoccupazione e difficile il controllo su quanti sono in carcere o in clandestinità: “tutti i leader dei sindacati hanno un mandato di cattura; gli esponenti delle organizzazioni democratiche o sono scappati all’estero o si sono trasferiti nelle aree controllate dalle milizie delle minoranze etniche”.