Alla fine di novembre dello scorso anno, a poche settimane dall’inizio della manovra a tenaglia delle truppe federali etiopi e di quelle eritree contro le milizie del Fronte Popolare di Liberazione del Tigray (Tpfl), il primo ministro Abiy Ahmed aveva annunciato la vittoria e la pacificazione della regione settentrionale ribelle.
Molti avevano avvertito che la facile vittoria era stata il frutto di una ritirata strategica delle truppe tigrine sugli altipiani e forse oltre confine, in attesa del momento di scatenare la controffensiva. E questa è effettivamente scattata a giugno, quando migliaia di combattenti, sostenuti dalla maggioranza della popolazione locale, hanno rapidamente ripreso la capitale tigrina Mekelle e altre città, mettendo in fuga truppe federali ed eritree. Di nuovo, esponenti del governo centrale avevano giustificato la precipitosa fuga con l’intenzione di dare una chance alla trattativa e di evitare inutili sofferenze ad una popolazione già fortemente provata.
Quando la direzione del Fronte ha di fatto rotto un fragile cessate il fuoco seguito alla riconquista della maggior parte del Tigray da parte delle Forze di Difesa (il braccio armato del TPLF) e ripreso l’offensiva, Addis Abeba ha avvisato che, volendo, in tre settimane avrebbe sbaragliato la ribellione. Le tre settimane sono ampiamente trascorse e non sembra proprio che le sorti del conflitto, allo stato attuale, volgano a favore del governo federale.
Le Forze di difesa del Tigray (Tdf) stanno infatti ormai avanzando in profondità anche nella confinante regione degli Amhara e hanno conquistato altre due città. Ai media locali Tsadkan Gebretensae, alto ufficiale delle Tdf, ha affermato che le milizie tigrine sono ora pronte a marciare verso la capitale federale Addis Abeba. Sul fronte opposto, il presidente dello Stato regionale di Amhara, Agegnehu Teshager, ha esortato i giovani della regione ad aderire alla chiamata alle armi delle autorità federali e statali.
Già dallo scoppio del conflitto nel Tigray, nel novembre 2020, le forze amhara hanno combattuto al fianco delle Forze di difesa nazionali etiopi (Endf) e delle truppe eritree loro alleate, così come quelle di altri stati regionali. E dopo la riconquista delle principali città del Tigray da parte delle Tdf, nelle ultime settimane anche altri governi regionali – Oromia, Sidama, Somali e Benishangul-Gumuz – hanno annunciato la mobilitazione al fianco delle truppe federali alimentando ulteriormente i timori che l’Etiopia possa letteralmente deflagrare o piombare in una lunga fase di instabilità cronica.
Il Tplf assicura di non nutrire alcuna ambizione territoriale e di volersi limitare ad indebolire il nemico anche allo scopo di scoraggiare possibili controffensive da parte delle Endf. Secondo alcuni analisti, il vero obiettivo dei tigrini sarebbe infatti quello di controllare il collegamento stradale e ferroviario tra Addis Abeba e Gibuti – la principale arteria commerciale per l’Etiopia – creando una sorta di zona cuscinetto di “profondità strategica” nella regione di Afar, dove i tigrini possono contare anche sul sostegno dei ribelli locali.
In un comunicato diffuso nei giorni scorsi, le Tdf hanno dichiarato di aver ricevuto la “piena collaborazione” della popolazione locale delle città in cui sono entrate, cioè Sekota, Kobo e Woldia. Le Tdf mirerebbero anche, attraverso un’estensione delle porzioni di territorio controllate, a ottenere un maggiore peso contrattuale in vista di una trattativa con il governo federale.
Finora, i comandi tigrini hanno sempre rifiutato la proposta di cessate il fuoco avanzata dal governo federale, subordinandola ad una serie di condizioni tra cui il ritiro delle truppe eritree e delle milizie Amhara, l’accesso incondizionato agli aiuti umanitari nella regione e la piena fornitura di servizi essenziali. La direzione del Tplf chiede inoltre, oltre al rilascio di tutti i leader politici e dei combattenti arrestati e imprigionati, che i governi locali eletti del Tigray vengano ripristinati, l’istituzione da parte dell’Onu di un organismo indipendente che indaghi sui crimini di guerra e la creazione di un’entità internazionale in grado di supervisionare l’attuazione delle misure previste da un eventuale accordo di pace.
Nonostante i ripetuti tentativi dell’esercito federale di contrastare la loro avanzata, soprattutto attraverso l’uso dell’aviazione militare che ha realizzato diversi bombardamenti – come quello che ha distrutto la maggior parte della città di Yechila – ormai da un mese i tigrini stanno conducendo un’inarrestabile offensiva diretta a indebolire la tenuta delle istituzioni centrali. Secondo le ultime informazioni disponibili, i tigrini mirerebbero a prendere il controllo di Gondar, la capitale di Amhara, e controllerebbero quasi il 50% dello stato di Afar.
Anche se il governo di Gibuti ha respinto le informazioni diffuse da alcuni media riguardo ad una mobilitazione del suo esercito per mettere in sicurezza i collegamenti stradali tra il piccolo Stato costiero e Addis Abeba, nei giorni scorsi le immagini satellitari tratte da Google hanno mostrato lunghe file di camion bloccati alla frontiera a causa della chiusura dell’arteria che unisce i due paesi. Un danno non indifferente per l’Etiopia, che dopo l’indipendenza dell’Eritrea ha perso lo sbocco sul mare e che attualmente dipende al 95% dal porto di Gibuti per garantire approvvigionamenti ed esportazioni.
Per imprimere una svolta al conflitto il governo di Abiy Ahmed ha ordinato una intensificazione dei bombardamenti aerei, diretti a terrorizzare la popolazione che sostiene le Tdf, e a tagliare le vie di rifornimento ai ribelli. Ma da più parti giungono notizie sulla scarsa disciplina e tenuta delle milizie regionali mobilitate recentemente, con molti combattenti che alla prima occasione abbandonano i ranghi e disertano.
L’estrema difficoltà in cui versa il governo federale, secondo alcuni analisti, giustificherebbe i toni parossistici utilizzati dal primo ministro e Nobel per la Pace (2019) per definire i combattenti tigrini, indicati in un intervento come “erbacce da estirpare”, espressione che a molti ha ricordato “gli alberi alti da tagliare” evocati dagli hutu ruandesi attraverso l’emittente Radio Television Libre des Mille Collines allo scopo di incitare la popolazione a sterminare i tutsi nel 1994.
Che il paragone sia giustificato o meno, le parole di Ahmed sono state quanto mai crude. «Il nemico che abbiamo di fronte è il cancro dell’Etiopia. La giunta (del Tplf) è probabilmente l’unico gruppo nella storia ad aver usato il suo potere politico per distruggere il proprio Paese. Satana, che ha vissuto tra i suoi contemporanei, sarà presto fatto a pezzi e la giunta verrà sradicata perché non ricresca. Questo accadrà se tutti lavoriamo duramente per liberarcene”, ha affermato Ahmed nel discorso realizzato in occasione del Nelson Mandela Day.
Il conflitto, che ormai si prolunga da mesi in un paese alle prese da sempre con un enorme problema di malnutrizione e le ricorrenti carestie, sta causando da tempo un disastro umanitario. Secondo le agenzie internazionali ed alcune organizzazioni locali, fino ad ora la guerra ha provocato migliaia di morti e feriti, due milioni di sfollati e circa 5 milioni di persone che per alimentarsi devono fare affidamento sugli aiuti, spesso bloccati dai combattimenti, dall’interruzione delle vie di comunicazione oppure direttamente dal governo di Addis Abeba.
Particolare preoccupazione, poi, desta fin dall’autunno la condizione di decine di migliaia di rifugiati eritrei – per lo più oppositori del regime di Isaias Afewerki riparati nel Tigray e ospitati da anni in grandi campi profughi – molti dei quali sono stati oggetto di ritorsioni da parte dei combattenti degli opposti schieramenti e soprattutto delle truppe di Asmara accorse a dare manforte alle forze di Abiy Ahmed.
Appelli a favore dell’incolumità dei profughi eritrei sono stati lanciati recentemente da Filippo Grandi, Alto Commissario dell’Onu per i rifugiati, mentre l’ex amministrazione del Tigray – esautorata a novembre dal governo federale – ha chiesto l’apertura di un’indagine internazionale indipendente condotta dalle Nazioni Unite “sulle atrocità commesse contro i civili”, soprattutto contro gli abitanti dei due campi profughi di Shimelba e Hitshats che sono stati completamente distrutti.