Nel mondo ci sono crisi prioritarie, altre che si accendono a intermittenza e altre ancora che vengono dimenticate.
L’elenco di queste ultime è il più lungo. Dell’occupazione del Sahara Occidentale da parte del Marocco, dopo un lungo silenzio, abbiamo sentito parlare in questi mesi solo per via dell’inchiesta sulla corruzione nel Parlamento Europeo, che avrebbe avuto, tra gli altri obiettivi, anche quello di far “passare liscia” al governo marocchino l’occupazione illegittima dell’ex colonia spagnola.
Il continuo uso e abbandono dei curdi, nei vari Paesi in cui questo popolo costituisce una minoranza oppressa, è una costante: basti pensare al caso dei curdi siriani, sacrificati sull’altare degli interessi turchi e russi.
La luce sulla situazione dei palestinesi nei territori occupati si riaccende ogni tanto, ma sempre con minore intensità.
Poi ci sono i regimi che agiscono in totale impunità: come quello al potere in Myanmar, Paese che dal 2021 è governato con il pugno di ferro dai militari.
La leader delle forze democratiche e Premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi, 77 anni d’età, al momento deve scontare 33 anni di carcere, sommando le condanne che le sono state inflitte per 14 capi d’imputazione. Finora sono in totale 16.500 i dirigenti del suo partito arrestati e 139 i dissidenti condannati a morte dei quali si ha notizia, che si aggiungono ai 4 giustiziati ad agosto. Un rapporto dell’ONU parla di 15 milioni di birmani, su una popolazione di 58 milioni, che stanno soffrendo la fame; il numero delle vaccinazioni anti-covid è crollato e la guerra civile tra lo Stato e diversi gruppi armati dilaga.
Eppure nessuno prende seriamente in considerazione il Myanmar. Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che non ha mai condannato la giunta militare a causa dei veti della Cina, ha prodotto soltanto una tiepida risoluzione (con l’astensione di India, Russia e Cina) che chiede la cessazione delle violenze e la scarcerazione dei detenuti per motivi politici. Le uniche misure concrete sono state finora le sanzioni USA e l’embargo europeo sull’esportazione di armamenti e beni che potrebbero essere usati a scopo militare. Poca cosa per spaventare i generali di Yangon, che vengono riforniti di qualsiasi tipo di armi dalla Cina.
Il vero tallone d’Achille dei militari resta la disastrata economia del Paese: ma anche questo problema appare potenzialmente superabile grazie all’appoggio cinese, in particolare, agli investimenti che la Cina sta realizzando nel settore minerario birmano. Occorre ricordare che Pechino controlla circa il 60% del mercato mondiale delle terre rare e che il Myanmar ne possiede un altro 10%: per motivi ambientali, considerato il pesante impatto ambientale dell’estrazione, la Cina ha cominciato a limitare l’attività estrattiva sul suo territorio e a cercare altrove i preziosi minerali, soprattutto nel Kachin birmano, una regione ora controllata da un gruppo alleato dei militari di Yangon. Il metodo di estrazione usato in Myanmar si basa sulla deforestazione e produce liquami tossici scaricati nei fiumi senza trattamenti.
Dal momento del colpo di Stato a oggi, i luoghi di estrazione di terre rare sono passati da qualche decina a oltre 2700. Ed ecco allora l’importanza strategica dei militari birmani: possono garantire, al prezzo della devastazione del proprio Paese, l’estrazione di quei minerali strategici per le nuove tecnologie. Poco importante il Myanmar, troppo importanti le terre rare, e così la democrazia può aspettare. Con l’appoggio diretto della Cina e quello supplementare di India e Russia, i militari birmani possono essere certi che i loro misfatti resteranno impuniti.