Tre voli partiti da Riyad alla volta di Addis Abeba hanno rimpatriato altri 1.256 etiopi alla fine di novembre. Tra loro ben 233 minori o bambini, 924 donne e 99 uomini. Dal 2017 le autorità saudite hanno rispedito al mittente centinaia di migliaia di etiopi.
Molte donne etiopiche, per lo più impiegate come collaboratrici domestiche, sono emigrate nel regno wahabita con la speranza di trovare stabilità economica e un futuro.
Ma una volta tornati a casa, i migranti devono affrontare una nuova battaglia: il reinserimento nelle proprie comunità. Un’impresa ardua, visto che spesso vengono apostrofati come falliti, in quanto non hanno raggiunto gli obiettivi economici sognati.
Un nuovo rapporto di Amnesty International, pubblicato il 16 dicembre scorso, denuncia la gravissima situazione dei migranti etiopici in Arabia Saudita, dove si trovano ben oltre 10 milioni di lavoratori migranti, tra questi, almeno 750mila provengono dall’Etiopia, il secondo Paese più popoloso dell’Africa.
Secondo l’ultimo fascicolo della ONG, nei centri di detenzioni sono rinchiusi almeno 30mila etiopi, in attesa di rimpatri forzati. Ex detenuti, citati da Amnesty, hanno raccontato di essere stati picchiati e torturati con cavi e bastoni di metallo durante la loro permanenza nei centri di Al-Kharj and Al-Shumaisi in Arabia Saudita.
Un vero e proprio inferno, secondo molti testimoni sentiti dalla ONG. Uno di loro ha riferito di aver dovuto condividere con 200 detenuti una cella con soli 64 letti, costringendo le persone a dormire a turno sul pavimento. Altri hanno detto di essere stati privati di acqua, cibo e cure mediche e sono stati riportati anche diversi casi di morte, conseguenza delle percosse e/o omissione di terapie sanitarie.
Nonostante i conflitti (in particolare in Tigray e in Oromia) che si stanno consumando in Etiopia, per non parlare della grave carestia che ha colpito il Corno d’Africa (compresa la regione Somala etiopica), l’Arabia Saudita sta portando avanti una vasta campagna per rimpatriare i rifugiati nel Paese di origine. Anche se alcuni tra loro hanno accettato i ritorni forzati, secondo Amnesty International, i più avrebbero acconsentito solamente per fuggire alle terribili condizioni di detenzione.
Amnesty sostiene che tra le persone rispedite a casa, ci sono anche donne incinte e minori non accompagnati, e molti tigrini. Nel gennaio 2022, Human Rights Watch aveva chiesto all’Arabia Saudita di garantire l’accesso alle procedure di asilo agli etiopi provenienti dal Tigray.
L’Arabia Saudita ha speso miliardi di dollari per rifare la propria immagine, per far dimenticare al mondo intero il brutale omicidio del giornalista del Washington Post, Jamal Khashoggi e la guerra dello Yemen caduta in totale oblio. In parte ci è riuscita, visto che persino il presidente USA, Joe Biden, ha concesso l’immunità al principe ereditario del regno wahabita, Mohammed Bin Salman al Saud.
“Ma la nuova vernice copre una terribile realtà di violenza contro i migranti il cui duro lavoro sta contribuendo a realizzare la grande visione del regno”, ha affermato Heba Morayef, direttrice regionale di Amnesty International per il Nord Africa e il Medioriente.
In base alle dichiarazioni rilasciate dalle autorità etiopiche e saudite lo scorso marzo, almeno 100mila etiopi saranno rispediti al mittente come pacchi postali entro la fine dell’anno, perché non in possesso di regolari documenti. Certificati difficilmente ottenibili anche a causa della Kafala, una legge che esclude i migranti dai diritti dei lavoratori in Arabia Saudita e in altri Paesi del Golfo.
La Kafala vincola la residenza legale alla relazione contrattuale con chi assume i lavoratori stranieri. Ciò significa che un migrante non può cambiare impiego senza autorizzazione del datore di lavoro.
Se un dipendente rifiuta e decide di abbandonare l’abitazione o il posto di lavoro senza il consenso del padrone, rischia di perdere il permesso di soggiorno e di conseguenza il carcere e l’espulsione. Un sistema che equivale a una forma di moderna schiavitù.
Fonti: Articolo del 24/12/22 di Africa Express. Foto La Repubblica