La sera del 21 febbraio 1934 veniva assassinato Augusto C. Sandino, General de Hombres Libres come lo aveva definito l’intellettuale comunista francese Henri Barbusse. Il Nicaragua era allora sottosopra per le diatribe fra liberali e conservatori, entrambi espressione dell’oligarchia creola locale, discendente degli spagnoli. Ma soprattutto, in ugual misura, subalterni agli Stati Uniti. Che all’insegna della Dottrina Monroe (ex presidente USA degli inizi dell’800) di “America agli americani” avevano convertito i paesi dell’istmo centroamericano (il proprio “cortile di casa”) nelle cosiddette banana republics; dando il via alle prime multinazionali del pianeta.
Non era trascorso molto tempo dalla Rivoluzione Messicana del leggendario Emiliano Zapata: la prima nella storia dopo quella francese e antecedente la bolscevica; che puntava ad una riforma agraria che superasse il secolare schema coloniale terratenientes versus peones. E il Nicaragua era per la seconda volta sotto occupazione dei marines.
Sandino nel 1927, a 32 anni, costituisce l’Ejército Defensor de la Soberanía Nacional, all’insegna dell’autodeterminazione di un popolo che “no se discute, se defiende con las armas en la mano”(più machetes che fucili in verità). Opera sulle alture de Las Segovias, al confine con l’Honduras, occupando le piantagioni della bananiera United Fruit Company. Libera la città di Estelí. Ma viene contenuto subendo a Ocotal uno dei primissimi bombardamenti aerei nelle Americhe.
Il suo è un mix fra antimperialismo ispirato all’indipendentista cubano José Martí, massoneria (libertà, fratellanza universale e giustizia) e teosofia orientaleggiante. I “fratelli” messicani dello Yucatán lo sostengono con armi e denaro. Sandino adotta la bandiera rosso/nera anarco/socialista, dove il rosso è auspicio di libertà e il nero sinonimo di lutto. E conia un secondo motto: “No me vendo ni me rindo, patria libre o morir”. Uno dei suoi più stretti luogotenenti, il salvadoregno José Farabundo Martí (di cinque anni più giovane) a un certo punto opta per abbracciare il marxismo. Torna in El Salvador, fonda il Partido Comunista Salvadoreño e capeggia la rivolta dei campesinos del suo paese. Soffocata nel sangue di qualche decina di migliaia di essi nel ’32, ad opera del generale Maximiliano Hernández.
“Sandino e Farabundo avevano un grande rispetto e un’ammirazione reciproca” ci raccontò Miguel Mármol, uno dei pochissimi sopravvissuti di quel massacro (si finse morto) che avemmo il privilegio di intervistare poco prima che morisse nel ’92.
Sta di fatto che Sandino resiste. Da semplice bandolero le truppe statunitensi sono costrette a “promuoverlo” a guerrillero. E non riescono a stanarlo. Fino a che il presidente Franklin Delano Roosvelt decise di ritirarle, occupato com’era nel far fronte alle ben più serie conseguenze della “grande depressione” del ’29. Ma prima di andarsene costituiscono la Guardia Nacional, con a capo Anastasio Somoza.
El General firma la cessazione delle ostilità col presidente liberale Juan Bautista Sacasa. E la sera del 21 febbraio di novant’anni fa, in fiducia e disarmato, cena con lui e l’altrettanto generale Somoza a Managua. Sulla via del ritorno Somoza lo fa fucilare insieme ad altri quattro dei suoi. Durante la sua dinastica dittatura racconterà di averlo ucciso su ordine dell’ambasciatore USA. Non poteva che essere quello il cosciente destino del ribelle Sandino nella sua ”lucha hasta la muerte” al fianco dei contadini. Somoza farà comunque la stessa fine nel ’56 per mano del giovane poeta Rigoberto Lopéz Perez.
Nel 1961 Carlos Fonseca fonda in Nicaragua il Frente Sandinista de Liberación Nacional (FSLN), che il 19 luglio 1979 abbatterà la tirannia di Anastasio Somoza figlio, dando vita alla Revolución Popular Sandinista. Mentre nell‘80 in El Salvador nasce il Frente Farabundo Martí (FMLN) agli inizi di una guerra civile conclusasi (con un pari e patta militare) con gli accordi di pace del ‘92.
Il nuovo corso nicaraguense venne subito aggredito da Ronald Reagan non appena insediatosi alla Casa Bianca, ossessionato com’era dal suo possibile contagio nel resto del subcontinente per la sua apertura, pluralità e conduzione collegiale, senza precedenti nella storia moderna dell’occidente. Il feroce embargo, i contras, gli inesorabili errori interni, portarono alla sconfitta elettorale del 25 febbraio 1990. Ma non è lì che la rivoluzione muore. Al contrario, con quel rovescio alle urne compie la propria opera maestra: perde e consegna democraticamente il governo a Violeta Barrios de Chamorro. Con il proposito di rifarsi altrettanto democraticamente alle successive elezioni.
Tutto finisce in realtà col fratricidio del 21 settembre ‘93 quando in una violenta protesta del sindacato sandinista del trasporto pubblico (noi eravamo lì) viene ucciso il subcomandante Saúl Àlvarez della Policía rimasta sandinista, seppur ribattezzata Nacional. Che sancisce la definitiva spaccatura nel FSLN fra il sempiterno segretario generale Daniel Ortega e i sandinisti democratici. Con gli “ortodossi” a prevalere, determinati a tornare al potere per non mollarlo mai più. Come accadrà dal 2007 in poi, al costo di un pacto con l’oligarchia nostalgica del somozismo, in funzione del “dio denaro”. E mantenendo una vergognosa facciata di sinistra.
Fino all’aprile 2018, quando i giovani universitari si ribellano all’orteguismo coinvolgendo pressoché l’intera popolazione in manifestazioni che avevamo vissuto solo nei primi anni della rivoluzione. Almeno 350 di loro, in tre mesi, rimangono vittima di una feroce repressione; molti sono costretti a lasciare il paese. Fino ai giorni nostri, in cui la tirannia di Daniel Ortega si è rivelata peggiore di quella somozista che aveva rovesciato.
Del resto lo stesso Somoza senior nel ’44, dopo un’incipiente rivolta anche qui di universitari del tempo, avrebbe fatto riesumare i resti di Sandino dalla fossa comune de La Calavera (lo scheletro) per bruciarli nella Loma di Tiscapa; dove sorge la sagoma del General de Hombres Libres con il suo inseparabile sombrero a falda larga, fatta erigere dal ministro della cultura padre/poeta Ernesto Cardenal durante la rivoluzione; e che ancora oggi domina la capitale. Per poi spargerne le ceneri nelle acque del dirimpettaio lago Xolotlán e cancellare così ogni sua vestigia.
Su queste pagine abbiamo avuto modo di denominare quegli studenti del 2018 i “i nipoti di Sandino”. Che hanno impersonato lo spirito ribelle insito da sempre nel popolo nicaraguense. Pacifico nella sua essenza quanto irrequieto. Che già ai tempi della colonia spagnola avevano inventato la folklorica figura musical/teatrale de El guegϋense: l’indigeno nahuatl che balla in maschera prendendosi gioco del chele (bianco) conquistador.
Purtroppo molti di quei giovani non si sentono affatto eredi del General. Al contrario aborrono la parola sandinista di un Frente dal potere assoluto di cui Ortega continua ad essere il nefasto usurpatore. La stessa bandiera rosso/nera è stata abiurata. Come ancor più l’inno del FSLN “Patria Libre o Morir”, composto dal grande cantautore Carlos Mejia Godoy, riparatosi oggi a San Francisco. Colmo vuole che il loro simbolo di lotta sia il bianco/azzurro della bandiera nazionale. La stessa che sventolava la destra controrivoluzionaria negli anni ’80 e che prevalse nel segreto dell’urna del ‘90. Anche se Doña Violeta de Chamorro, candidata di tutta la destra, somozista compresa, si rivelò colei che da moderata e negoziando col fratello di Daniel Ortega, Humberto, capo dell’esercito e membro della Dirección Nacional del FSLN, perseguì una “riconciliazione nazionale”. Che portò al disarmo dei contras.
Quella stessa Violeta moglie di Pedro Joaquín Chamorro, direttore del quotidiano La Prensa, fatto ammazzare da Somoza junior l’anno prima della sua caduta. E che fece addirittura parte, per breve tempo, della prima Junta de Gobierno rivoluzionaria. E i cui figli allora si spartirono nell’uno e nell’altro bando (come tante famiglie nicaraguensi). Con Cristiana da un lato, messa tre anni fa agli arresti domiciliari come tutti coloro che si erano candidatati alle presidenziali del 2021. E sull’altra sponda Carlos Fernando a dirigere Barricada (organo del Frente) per tutto il tempo della rivoluzione fino a esserne estromesso a forza nel ‘93. Per poi essere costretto oggi all’esilio in Costarica (privato della cittadinanza nica) dove dirige la testata digitale anti orteguista Confidencial.
Duole ripercorrere quell’epopea del Nicaragua del secolo scorso. Come pesa assistere alla vice e moglie di Ortega, Rosario Murillo, paradossalmente pure discendente di Sandino in quanto nipote di una sua cugina, appropriarsi di questo ‘90° anniversario, col suo delirante esoterismo tuttofare.
E ancor più costa vedere l’immagine di Sandino e del suo drappo rosso/nero alle spalle di Maurizio Gelli, figlio di Licio, ambasciatore del Nicaragua in Spagna, Grecia, Cechia, Slovacchia e Andorra. Nonché al lato del nipote del “venerabile” (che porta il suo stesso nome) rappresentante del governo orteguista in Uruguay.
Del resto, corsi e ricorsi della storia vollero che anche il minuscolo Sandino, pochi momenti prima di essere ucciso, si facesse ritrarre con il braccio sulla spalla di quel marcantonio in divisa che era il suo assassino Somoza; anche lui, a suo modo, massone. Così come suo figlio nel 1977 accolse a Managua il “nostro” Roberto Calvi, della Loggia di Andorra, per aprire la filiale nicaraguense del Banco Ambrosiano. Daniel Ortega non ha fatto altro che riprendere quell’inquietante filo nero.
Povero General Sandino, che neppure può rivoltarsi nella tomba…
Fonti: Articolo del 21/02/24 di Internazionale. Foto di Prensa Latina.