Il ritorno del golpismo in Bolivia

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In Bolivia sono tornati i golpisti. In realtà non erano mai andati via, ma nelle ultime settimane la destra separatista del Comité Cívico de Santa Cruz è tornata ad occupare le strade e le piazze utilizzando come pretesto lo slittamento della data del Censo de Población y Vivienda. L’ultradestra cruceñista pretendeva che si realizzasse nel 2023 e non nel 2024 come invece ha deciso il governo del presidente Luis Arce.

È così che, dal 22 ottobre scorso, il governatore del dipartimento di Santa Cruz Luis Fernando Camacho, un picchiatore della prima ora che già aveva promosso una serie di azioni violente per destabilizzare il paese fin dall’epoca delle presidenze di Evo Morales, ha proclamato uno sciopero a tempo indeterminato con il sostegno del presidente del Comité pro Santa Cruz Rómulo Calvo e del rettore dell’Universidad Autónoma Gabriel René Moreno Vicente Cuéllar.

La mobilitazione dell’estrema destra è stata all’insegna della violenza, oltre a caratterizzarsi per essere, probabilmente, il primo caso al mondo in cui la regione di uno stato organizza una sollevazione per protestare contro lo spostamento del censimento della popolazione. Lo scopo delle proteste, ancora una volta, era quello di far cadere il governo di Luis Arce, eletto legittimamente nel 2020.

Dopo aver stabilito che la data del Censo de Población y Vivienda sarebbe stata il 23 marzo 2024, Luis Arce ha ricordato di aver convocato una Cumbre Plurinacional por un Censo con Consenso disertata volontariamente dagli esponenti del Comité interinstitucional de Santa Cruz, il cui scopo principale era, ed è tuttora, quello di balcanizzare il paese nel tentativo di strappare una maggiore autonomia e ulteriori privilegi fiscali sull’esempio di quanto già accaduto nel 2008, quando la cosiddetta Media Luna dell’Oriente bolivianoi dipartimenti di Santa Cruz, Beni, Pando e Tarija cercarono di promuovere un golpe, con l’appoggio dell’allora ambasciatore Usa Philip Goldberg, per intraprendere una strada separatista.

Il censimento assume, per i separatisti, una particolare rilevanza perché avrà un impatto sia sulla distribuzione delle risorse da parte del governo nazionale sia sull’attribuzione del numero dei seggi alla Camera dei deputati, dove Santa Cruz potrebbe acquisirne ulteriori tre.

Da sempre centro dello sviluppo economico della Bolivia per la ricchezza degli idrocarburi e un alto livello di vita rispetto al resto del paese, il dipartimento di Santa Cruz si è storicamente caratterizzato per il suo aperto razzismo. Non a caso, a pagare per lo sciopero ad oltranza proclamato dall’estrema destra, protrattosi per tre settimane, sono state le classi popolari, vittime del suprematismo razzista di una elite che vuole staccarsi dal resto del paese.

La destra separatista aspira a proclamare la “República de Santa Cruz” almeno dal 2009, quando la grande borghesia appoggiò le manovre secessioniste e i tentativi di eliminare Evo Morales, allora presidente del paese, assoldando terroristi e mercenari come Eduardo Rosza (su cui pende l’accusa di aver commesso crimini di guerra nei Balcani) e Branko Marinković, allora presidente del Comité Cívico de Santa Cruche auspicava una guerra civile da cui sarebbe nata la cosiddetta “Nación Camba”, all’insegna degli ideali razzisti e identitari.

A chiedere le dimissioni di Camacho da governatore di Santa Cruz sono stati, tra gli altri, la Federación de Trabajadores Gremiales, Central Obrera Departamental, la Confederación de Pueblos Indígenas del Oriente Boliviano (Cidob), la Federación Única de Trabajadores Campesinos e la Federación Departamental de Mujeres, Campesinas Indígenas Originarias de Santa Cruz Bartolina Sisa.

Nessuno ha infatti dimenticato le provocatorie dichiarazioni di Fernando Camacho e Rómulo Calvo, quel “repetir la receta del 2019” da cui derivò il colpo di stato che portò a Palacio Quemado Jeanine Añez.

Fortunatamente, il paro cívico è rimasto confinato al solo dipartimento di Santa Cruz, dove sindacati e organizzazioni popolari impegnate a contrastare lo sciopero sono stati attaccati dai paramilitari dell’Unión Juvenil Cruceñista, ormai da anni il braccio armato dell’ala più radicale del separatismo e definita dalla Commissione interamericana per i diritti umani come “un grupo irregular que debe ser desmantelado” poiché la sua organizzazione ricalca quella della Tripla A argentina degli anni Settanta.

Di fronte allo sciopero proclamato da Luis Fernando Camacho, i movimenti sociali sono tornati a chiedere al presidente Luis Arce di agire con la massima fermezza, sia costituendo una commissione d’inchiesta che indaghi sulle violenze razziste avvenute nel dipartimento di Santa Cruz, istituendo il reato di terrorismo y alzamiento armado contra el Estado boliviano” sia cacciando dal suo governo due ministri dal comportamento quantomeno ambiguo come il titolare della Giustizia Iván Lima, legato all’Opus Dei e Eduardo Del Castillo. È stato lo stesso Movimiento al Socialismo (MAS) a chiederne la destituzione, ricordando inoltre le responsabilità di Camacho e dei golpisti boliviani nei massacri di Sacaba e Senkata seguiti al colpo di stato del 2019 e sottolineando la gravità di voler creare un conflitto politico a livello nazionale che sarebbe disastroso, allo stato attuale, per l’economia boliviana.

Nonostante quello che è stato definito come “il conato golpista di Santa Cruz”, secondo un sondaggio del Centro Estratégico Latinoamericano de Geopolítica – Celag, a due anni dalle elezioni che lo hanno condotto a Palacio Quemado, Luis Arce gode del sostegno di oltre la metà della popolazione boliviana, che giudica positivamente il suo mandato.

Fonti: Articolo di Peacelink del 16/11/22. Foto de la bottega dei barbieri